Non è l’estate che finisce.
È la luce che cambia passo.
Ottobre è un mese che parla sottovoce. Le ore si accorciano, ma il tempo sembra dilatarsi. Le giornate si svuotano di clamore e si riempiono di chiaroscuri.
In questo lento mutamento, la poesia trova il suo habitat naturale: il momento in cui tutto si trasforma, ma senza rumore.
La poesia d’autunno non descrive: ascolta. Ascolta i passi sulle foglie, i gesti che tornano uguali, la memoria che si risveglia insieme all’odore del legno bruciato.
È la stagione del ritorno, ma non del ripetersi. Si torna alle abitudini, ma con uno sguardo nuovo — come chi riapre una casa e ne riscopre i silenzi.
La foglia non cade per morire: cade per ricordarci che ogni caduta è un gesto di grazia.
Molti poeti hanno amato questa stagione. Da Ungaretti, che trovava nella brevità dei giorni un’eco dell’essenziale, a Montale, che nell’autunno riconosceva la trasparenza delle cose perdute, fino a Patrizia Cavalli, che ne ascoltava la voce ironica e malinconica.
L’autunno diventa una grammatica emotiva: insegna la misura, il distacco, la gratitudine.
È la stagione in cui si scrive meglio, forse perché le parole tornano più lente. Non si affollano, si cercano. La poesia d’autunno è come una finestra socchiusa: lascia entrare l’aria giusta, non troppa.
È una forma di meditazione, un modo per dire al mondo “sono ancora qui”, ma con il tono di chi non ha più bisogno di spiegarsi.
Ogni parola è una foglia che scende al suo posto, se il vento ha memoria.
Forse dovremmo imparare anche noi a cadere meglio: non per arrenderci, ma per accettare il ritmo del ritorno.
La poesia, in fondo, serve a questo: a ricordarci che tutto ciò che finisce, in realtà, sta solo tornando sotto altra forma. Come la luce che cambia, come il vento che rimescola il cielo, come noi — ogni volta che ci lasciamo toccare da un verso.
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