Il giorno scivola come sale nell’acqua.
Resta un sapore di luce sulle labbra.
C’è sempre un momento, a fine agosto, in cui la città si accorge di respirare più piano. Le voci scendono di un tono, le saracinesche scricchiolano come vecchi violini, le finestre trattengono l’ultimo tepore.
Il mare — se c’è un mare — resta. Non se ne va coi turisti né con i cartelloni delle sagre: il mare tiene il posto a sedere per tutti, come un amico che arriva in anticipo e non si lamenta mai.
Questo è un notturno per chi ritorna. Per chi apre la valigia e trova sabbia negli angoli, biglietti stropicciati, nomi appuntati male su foglietti di fortuna. È un notturno per chi non è partito affatto e ha tenuto il filo dei giorni come si tiene una corda tesa tra due balconi.
Le onde fanno il mestiere antico del tempo:
cancellano e riscrivono, senza fretta.
Nel buio che si fa più blu dietro i lampioni, ogni cosa torna alla sua misura. La promessa di settembre è ancora lontana: non chiede progetti, non pretende liste.
Ti chiede solo di ascoltare. Le scarpe, il respiro, il passo dei gatti tra i cortili. La città, di notte, non dorme: medita.
Quante volte abbiamo confuso la luce col rumore? Quante volte abbiamo creduto che felicità fosse correre più forte, e invece era sedersi un momento, seguire il suono di due bicchieri che brindano sul molo?
La fine d’agosto insegna l’arte minore del quasi: siamo quasi pronti, quasi in ritardo, quasi felici. E in quell’avverbio timido si nasconde una libertà enorme: la libertà di non chiudere. Di restare in soglia, come le porte socchiuse nei quadri di Hammershøi.
Di notte la città ha occhi gentili.
Ti guarda passare e non fa domande.
Se potessi scrivere una lettera al mare questa notte, direi: “Grazie per il modo in cui tieni insieme i pezzi del mondo. Per la pazienza con cui lucidi le pietre, per le orme che lasci intere solo a chi sa perderle.”
Gli chiederei un favore: che settembre non sia una corsa, ma un ritmo. Un cammino con soste, curve, panchine. Che porti con sé la luce buona di queste sere, la luce che non ferisce.
Alla fine, non c’è un dopo da inseguire. C’è un adesso che si allunga, come ombra lunga sul selciato.
E noi, qui, sotto il cielo che prende il colore dell’olio, possiamo fare qualcosa di antico e semplice: stare. Respirare in due tempi. Dire grazie. E lasciare che la notte ci ricordi la grammatica del silenzio.
Domani non promette nulla.
Ma stanotte mantiene tutto.
Renzo Samaritani Schneider
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